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LA WANDA, LA SCIANTOSA OMOSEX:

Vino per tutti al funerale dell'ultimo cantastorie

L’ultima storia l’aveva cantata per una grassa vicina di casa e il suo gatto nero.

Poi sono stati gli altri a cantare per lui, durante un incredibile funerale che si è snodato per un lungo tratto del Naviglio Pavese.
Per l’ultimo viaggio di Alberto Quacci, cantastorie meneghino sopravvissuto al suo tempo, di nero c’era soltanto il carro funebre che non si era potuto abolire; per il resto, con il sole, il Naviglio e la banda multicolore, il funerale avrebbe potuto essere scambiato per una festa o una processione.

Alberto Quacci, “Wanda” per gli amici, non aveva voluto un tradimento postumo del suo personaggio: quello del cantastorie classico, tutto vino e battuta, eccentrico ma non sfrenato, amante dell’applauso, ma non del successo.
Niente visi lunghi al funerale - aveva detto - niente abiti scuri: “Wanda” aveva tanti compagnoni ma pochi amici.
Aveva iniziato con la Vedova allegra e Va pensiero, era passato attraverso La miniera (quella del “minatore dal volto bruno”), ed era arrivato al Gagarella del Biffi Scala.
Ricordava di aver fatto da spalla perfino a Giuseppe Di Stefano, negli anni d’oro.
Alberto Quacci è morto in un abbaino, in uno stabile fatiscentedi via Torricelli 10, a Porta Ticinese.
Una ringhiera traballante, un muro scrostato, una porta che rimarrà chiusa per un pezzo.
Quello che resta di lui è una stanza male ammobiliata, decine di fotografie da “Italian graffiti” dell’avanspettacolo e una vecchia chitarra.

Aveva 69 anni: lo ha stroncato un tumore alla gola. Una malattia che aveva soprannominato scherzosamente “una bella fregatura” perché gli impediva di fare il cantastorienegli ultimi mesi della sua vita. Aveva cominciato negli anni ’30 con un repertorio alla Tajoli.
In seguito aveva abbandonato il fiore all’occhiello e il microfono passando alle ammiccanti inflessioni popolari accentuate dall’uso del megafono.
Poi erano venute le serenate, le stornellate, le operette: negli anni ’40 era di moda il “café chantant” e per Alberto Quacci si era profilato il “pericolo”: oltre agli applausi, anche il “successo”.
Gli amici assicurano che il successo non gli interessava: meglio la notorietà e l’amicizia con Wanda Osiris (da cui il soprannome d’arte).

La popolarità ufficiale non gli andava: avrebbe perso l’unico pubblico con cui si sentiva a suo agio, quello delle osterie di Porta Ticinese.
Passato il momento d’oro, era venuta l’epoca delle esibizioni in famiglia, ai matrimonie e ai battesimi.
II repertorio, si era finalmente, liberato delle sdolcinature da Festival di Sanremo: tutto nasceva da una osteria all’altra, su suggerimento di chi amava il vino non meno delle canzoni. Alberto Quacci prendeva dalla tasca il blocchetto degli appunti, eannotava le parole e la musica.
Spesso, le dimenticava e ricominciava tutto da capo, in un’altra osteria, davanti a un altro boccale di vino. Quando volevano qualcosa di “classico”, gli chiedevano El gir del mond o Sotto l’ombrellino. “Wanda” non diceva mai di no, chiedeva soltanto il tempo di rinfrescarsi la gola con dell’altro vino.

Con gli anni aveva ristretto il raggio d’azione: il quartiere generale negli ultimi tempi era dal “Pinza”, in via Ascanio Sforza.
Non aveva un compenso fisso: per lui soltanto un piatto e un bicchiere, oltre alle offerte libere che alcuni gli lasciavano sul banco. Se qualcuno puntava soltanto sul nome femminile per trascinarlo sul piano della volgarità, aveva sempre una risposta in milanese da levare la pelle: la capivano anche gli immigrati dalla Puglia (anche se non l’avrebbero saputa ripetere).
Molti giovani, forse quelli del compromesso storico, si aspettavano un maggiore coinvolgimento sulle tematiche sociali, magari una storia sugli occupanti delle case di Corso San Gottardo.
Ma non c’era niente da fare: “Wanda” era un cantastorie classico che, fra un bicchiere e l’altro, non aveva trovato il tempo per ritirare la tessera del PCI.
Proprio i giovani, negli ultimi tempi, lo avevano un po’ dimenticato. Alberto Quacci era apparso al Circolo della Stampa, per il premio D’Anzi, con una giacca e una cravatta che lo rendevano quasi irriconoscibile.
Aveva partecipato soltanto come ospite d’onore: la gola rovinata non gli permetteva che di canticchiare sottovoce qualche storia per pochi intimi.
Alla fine erano rimasti soltanto la grassa vicina di casa e il gatto nero.
Adesso che è morto, tutti i simpatizzanti del vecchio “Wanda” sono saltati fuori un’altra volta.
Dal “Pinza” hanno fatto una colletta di oltre mezzo milione per fargli un bel funerale.
Dietro al carro funebre, che non avrebbe dovuto essere nero, erano in più di cinquecento con in testa Luciano Beretta, il poeta dialettale milanese.
La Banda ha chiuso eseguendo la Madunina: una canzone popolare vera per un cantastorie vero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

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